GiuridicaMENTE - N.A.I.F.

news, aggiornamenti e informazioni forensi


Aggiornamenti

Aggiornamenti sulle novità del diritto civile e amministrativo

Aggiornamenti e informazioni forensi

Autore: Silvia Gussetti 08 nov, 2021
Ancora su preavviso e indennità sostitutiva nel recesso da un rapporto di lavoro
Autore: Gloria Morlini 19 ott, 2021
Appalti
Autore: Avv. Renato Caruso 27 lug, 2021
I passi giurisprudenziali e la “storica” sentenza del Tribunale di Ancona
Autore: Avv. Bianca Maria Caruso 27 lug, 2021
DUBBI D’INCOSTITUZIONALITA’
Autore: Avv. Antongiulio Colonna 27 lug, 2021
Il tema che si vuole affrontare è tanto di comune esperienza quanto singolarmente trascurato dagli interpreti e dalla giurisprudenza ed è istituto che risente ancora di significative incertezze nella sua disciplina e regolamentazione. Il preavviso nel recesso dei contratti di lavoro, come noto, trova la sua primaria fonte di disciplina ancora e solo nel codice civile e, segnatamente, nell’art. 2118 che prevede come “ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, dando il preavviso” ed ancora “in mancanza di preavviso, il recedente è tenuto verso l’altra parte a un’indennità equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso”. Quest’istituto assume quindi la principale funzione di tutelare – in maniera non dissimile da qualsiasi contratto di durata - la parte che subisce un (valido) recesso ma può svolgere anche altre funzioni come, ad esempio, nel suo prolungamento dal lato del dipendente, quella di garantire, pattiziamente, una “stabilità” del rapporto (c.d. “patto di stabilità”). La sua funzione “istituzionale” è quindi quella di prevedere uno spazio temporale per attenuare gli effetti del (seppur legittimo) recesso e, quindi, consentire, alternativamente, al datore di lavoro di organizzare il passaggio di consegne, riorganizzare l’attività, etc., al lavoratore di reperire nuova occupazione. Spazio temporale la cui durata è rimessa alla contrattazione collettiva - vera e propria fonte integrativa della scarna disciplina legale – e che, a seconda dei settori merceologici della qualifica ed anzianità di servizio del lavoratore, viene individuato in maniera molto differenziata. Sulla base di queste premesse si dovrebbe agevolmente concludere che, trattandosi di diritto potestativo conferito al soggetto che subisce il recesso, questo ben può rinunciarvi senza alcuna conseguenza. Così in effetti non è. Ed infatti, tradizionalmente, la giurisprudenza di merito, con il probabile intento di salvaguardare il prestatore dimissionario che aveva fatto affidamento sulla continuazione dell’attività lavorativa e, pertanto, sulla percezione della retribuzione durante il periodo di preavviso, si era espressa in modo difforme ritenendo che le “aspettative e i diritti facenti capo al lavoratore dimissionario diligente nel periodo di preavviso non possono dunque essere frustrate dall’interesse e volontà datoriale a non utilizzare le prestazioni lavorative offerte, onde l’esonero del dipendente dall’effettuazione del preavviso pone il datore stesso in condizione di mora senza liberazione dalle obbligazioni per legge incombentigli” e dunque il datore di lavoro che intende, in ipotesi di dimissioni del suo dipendente, rinunciare al preavviso dovrà comunque corrispondere al lavoratore l’equivalente monetario. Di tale impostazione vi è spesso significativa eco anche nei verbali conciliativi di risoluzione che prevedono, di regola, “l’esonero reciproco al periodo di preavviso (per il lavoratore) ed al pagamento della relativa indennità (per il datore di lavoro)”. Ed ancora nella contrattazione collettiva: così, ad esempio, l’art. 254 CCNL Terziario stabilisce che “(…) Ove invece il datore di lavoro intenda di sua iniziativa far cessare il rapporto prima della scadenza del preavviso, ne avrà facoltà, ma dovrà corrispondere al lavoratore l’indennità sostitutiva nelle misure di cui al comma precedente per il periodo di anticipata risoluzione del rapporto di lavoro”. In tale contesto riveste dunque particolare interesse una recente sentenza del Tribunale di Padova (7 marzo 2019, n.181) che rovescia, sembrerebbe per la prima volta, tale impostazione riportando la questione alle categorie civilistiche e statuendo che la rinunzia al periodo di preavviso da parte del datore di lavoro non obbliga alla corresponsione dell’indennità sostitutiva, in assenza di una specifica clausola contenuta nel contratto individuale di lavoro o contratto collettivo. Impostazione, quest’ultima, già consolidatasi in materia di agenzia (l’art. 1750 c.c. non fa riferimento all’indennità sostitutiva ma vincola solo al preavviso la parte recedente) laddove secondo la migliore dottrina ma anche secondo i principali Accordi Economici Collettivi (AEC Industria ed AEC Terziario), la parte che subisce il recesso si trova nella posizione di poter scegliere se liberare il recedente dalle obbligazioni derivanti dal rapporto, oppure chiedere l’esecuzione del preavviso: (anche) il preponente è dunque legittimato a non pagare l’indennità sostitutiva, a fronte del recesso esercitato dall’agente, comunicando la semplice volontà di porre fine al rapporto (entro termini stabiliti dai suddetti AEC).  In conclusione, la questione dovrebbe indurre a porre maggiore attenzione da parte dei contraenti, in caso di assenza regolamentativa di fonte collettiva, (anche) in fase di stipulazione dei contratti individuali di lavoro.
Autore: Avv. Simone Dall'Aglio 22 lug, 2021
L'interesse ad agire e l'evoluzione del concetto di “vicinitas”
Autore: Avv. Alessandro Maranesi 22 lug, 2021
DALLE STANZE PARROCCHIALI …. ALLE STANZE DI ZOOM!
Autore: Avv. Matteo Mammarella 22 lug, 2021
La grave crisi economica che caratterizza l’attuale periodo storico ha reso ancor più rilevante la problematica dell’accesso al credito. Crisi di liquidità e ridotta capacità di fornire garanzie rendono più difficoltoso per molte fasce della popolazione, ma in special modo per le piccole e medie imprese, accedere a forme di prestito o finanziamento. La centralità dell’accesso al credito, in molti casi vitale per la sopravvivenza dell’impresa, è stata rimarcata dal Tribunale di Roma con una recentissima sentenza nella quale la revoca dell'affidamento bancario, conseguente alla segnalazione di un imprenditore presso la Centrale Rischi della Banca d 'Italia, è stata ritenuta idonea ad arrecare un pregiudizio grave ed irreparabile all'attività della persona segnalata, privata della possibilità di reperire la liquidità necessaria per la continuazione dell’attività d’impresa, soprattutto in questo momento particolare di notoria crisi generale del mercato [1] . Come noto l’accesso al credito viene concesso a fronte della positiva rilevazione, da parte dell’intermediario finanziario, del cosiddetto merito creditizio [2] , determinato da una serie di elementi relativi all’attività d’impresa o alla situazione economica e patrimoniale della persona fisica quali: il volume d’affari, l’esposizione debitoria, la preesistenza di precedenti prestiti o di altre forme di finanziamento in essere e il positivo adempimento degli stessi. Tali elementi consentono all’intermediario finanziario, in sede di sottoscrizione del contratto di finanziamento o nel corso della pendenza dello stesso, di valutare discrezionalmente il grado di affidabilità del cliente e i margini di accessibilità al credito, nonché di determinarne le condizioni di accesso. Pertanto è fondamentale che il merito creditizio sia valutato in maniera corretta al fine di non veder pregiudicato ingiustamente l’accesso al credito del cliente o imporre a quest’ultimo un costo del credito non rapportato alle sue reali condizioni economiche. A tal fine il legislatore, con l’emanazione degli artt. 124-bis e 125 del Decreto legislativo del 01/09/1993 n. 385 – Testo Unico Bancario, ha stabilito che siano individuati i parametri di riferimento che consentano una valutazione il più possibile certa ed oggettiva del merito creditizio, ancorando tale valutazione sulla base di informazioni adeguate, se del caso fornite dal consumatore stesso e, ove necessario, ottenute consultando una banca dati pertinente [3] . La Centrale Rischi assolve proprio a tale funzione: raccogliere dati di coloro che accedono all’attività creditizia sulla base di segnalazioni da parte degli intermediari finanziari che trattano i dati dei rispettivi clienti, memorizzare le criticità segnalate rispetto ai margini di affidabilità e solvibilità, restituendo ai medesimi intermediari finanziari il complesso delle informazioni raccolte sul singolo nominativo. Allo stesso modo , l’art. 125 del TUB pone in capo all’intermediario uno stringente obbligo d’informativa al Cliente che deve essere tempestivamente reso edotto della propria “ reputazione creditizia ” [4] . Nel valutare il merito creditizio del singolo cliente l’intermediario finanziario, pertanto, si atterrà alle informazioni registrate dalla Centrale Rischi. Tale attività valutativa è stata oggetto di una regolamentazione stringente da parte della Banca d’Italia che, con la Circolare n. 139 dell’11 febbraio 1991, ha individuato una nozione d’insolvenza ai fini dell’iscrizione in Centrale Rischi non del tutto coincidente con l’insolvenza fallimentare. Tanto che la Corte di Cassazione è giunta ad affermare che si possa individuare una nozione levior d’insolvenza ai fini dell’appostazione a sofferenza (e della conseguente segnalazione in C.R.) rispetto all’insolvenza fallimentare [5] . In particolare la Banca d’Italia ha precisato che: “L'appostazione a sofferenza implica una valutazione da parte dell'intermediario della complessiva situazione finanziaria del cliente e non può originare automaticamente al verificarsi di singoli specifici eventi quali, ad esempio, uno o più ritardi nel pagamento del debito o la contestazione del credito da parte del debitore” [6] . L’importanza delle linee guida fornite dalla Banca d’Italia è stata recentemente ribadita in un interessante decisione emessa dal Collegio di Palermo dell’Arbitro Bancario Finanziario . Con la decisione del 01 ottobre 2020 n. 16876 [7] l’.A.B.F. ha affermato che l’intermediario finanziario, nel valutare il merito creditizio del singolo cliente, debba attenersi alle istruzioni fornite dalla Banca d’Italia qualificando tali istruzioni alla stregua di “parametri di condotta destinati ad assumere un importante rilievo, pure nello spettro di una valutazione che sia volta ad individuare profili di responsabilità dell'istituto di credito nei confronti del proprio cliente e che muova i suoi passi sotto l'egida, oltre che dei canoni generali di correttezza e di buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., anche del canone della diligenza professionale di cui all'art. 1176, comma 2, cod. civ.” [8] . In tal modo l’A.B.F. ha ricondotto la condotta lesiva dell’intermediario finanziario entro lo schema della responsabilità contrattuale quale violazione dei principi di buona fede e diligenza nello svolgimento dell’attività professionale, secondo un’interpretazione costantemente condivisa da larga parte della giurisprudenza ordinaria e di legittimità. La qualificazione dell’illegittima segnalazione in Centrale Rischi entro lo schema della responsabilità contrattuale ha rilevanti risvolti positivi in sede giurisdizionale per il cliente illegittimamente segnalato, in quanto l’onere probatorio in capo a quest’ultimo sarà molto meno gravoso dovendo egli limitarsi ad allegare l’esistenza di un titolo su cui si fonda il rapporto (il contratto di concessione del credito), l’inadempimento dell’ente concessore del credito il quale avrà trattato illecitamente i dati del proprio cliente segnalandolo ingiustamente presso la Centrale Rischi della Banca d’Italia e il danno patito in conseguenza della segnalazione illegittima. Sarà onere dell’intermediario finanziario dimostrare che non vi è stato inadempimento, avendo questo ultimo correttamente valutato la situazione economica generale del cliente o che tale inadempimento non sia imputabile al medesimo ente concessore del credito. L’illegittima iscrizione in C.R. costituisce, pertanto, un’ipotesi di responsabilità contrattuale dell’intermediario finanziario quale illegittima utilizzazione dei dati personali del cliente. Tanto che la giurisprudenza di legittimità tradizionalmente l’ha qualificata come violazione del disposto di cui all’art. 15 del D.L.gs 196/2003 Codice Privacy [9] (oggi abrogato dal D.L. 101/2018 di recepimento del regolamento UE 2016/679 GDPR e sostituito dall’art. 82 di tale normativa comunitaria con una disciplina sostanzialmente analoga). Parimenti la giurisprudenza di legittimità costantemente ha riconosciuto che tale illecita utilizzazione dei dati personali sia idonea a cagionare una responsabilità di tipo extra-contrattuale da attività pericolose ex art. 2050 c.c. La qualificazione della condotta dell’intermediario finanziario entro lo schema di cui all’art. 2050 c.c. aggrava l’onere probatorio in capo a quest’ultimo in sede processuale, potendo l’intermediario esimersi da ogni responsabilità solo con la prova del caso fortuito, dimostrando di aver adottato ogni cautela e di essersi avvalso delle migliori tecniche di prevenzione del danno. Nel caso di specie, fornendo la prova di aver valutato in maniera corretta la complessiva situazione patrimoniale del Cliente ed evidenziandone i presupposti per poter ritenere quest’ultimo in stato d’insolvenza. Per converso, il Cliente illegittimamente segnalato che intenda vedersi riconosciuto in giudizio il risarcimento per i danni subiti avrà un onere di allegazione meno gravoso rispetto ad una normale ipotesi di responsabilità aquiliana ma, tuttavia, non insussistente, potendo altresì dimostrare il danno anche solo tramite presunzioni semplici. Al riguardo, la Corte di Cassazione ha più volte affermato che il danno patito dal cliente per effetto dell’illegittima iscrizione nella Centrale Rischi vada compiutamente provato ed allegato, sia che lo si intenda qualificare come responsabilità contrattuale, sia che lo si qualifichi come responsabilità extra-contrattuale ex art. 2050 c.c., non potendo qualificarsi un danno risarcibile per illecita segnalazione “in re ipsa” [10] . Venendo più compiutamente ad analizzare i pregiudizi che il cliente potrà lamentare in giudizio, quest’ultimo certamente potrà vedersi riconosciuto il danno patrimoniale costituito dal mancato incremento patrimoniale derivante dal diniego di accesso al credito fondato proprio sulla sussistenza di un’illegittima iscrizione in Centrale Rischi a suo carico. Analogamente potrà essere risarcito il lucro cessante costituito dai mancati ulteriori guadagni che, mediante l’impiego delle somme richieste a credito, il cliente avrebbe potuto realizzare. A tal fine, tuttavia, il cliente illegittimamente segnalato dovrà dimostrare il nesso di causalità tra l’illegittima segnalazione e il danno patito, dimostrando di non aver potuto accedere al credito proprio in ragione dell’illegittima segnalazione nonché di non aver potuto realizzare, in conseguenza della stessa, gli ulteriori maggiori incrementi patrimoniali. Allo stesso modo, andrà compiutamente provato il danno non patrimoniale in capo al correntista/cliente illegittimamente segnalato in termini di danno all’immagine (professionale per l’imprenditore e personale per le persone fisiche), sempre che, al fine di poter essere risarcito, superi una soglia minima di tollerabilità. Il giudice dovrà, pertanto, accertare l'esistenza del danno in questione, verificando se e in quale misura l'illegittima segnalazione presso la Centrale dei Rischi abbia arrecato pregiudizio all'immagine pubblica della persona giuridica, con conseguente necessità di un'indagine sulla diffusione della notizia diffamatoria, sulla sua percepibilità da parte della collettività, sulla possibilità per fornitori e clienti di riconnettere il declino societario a quella notizia, nonché sull'eccedenza del danno rispetto alla soglia della normale tollerabilità [11] . Diversamente, la Corte di Cassazione ha riconosciuto che per quanto concerne la liquidazione del danno, ove compiutamente provato ed allegato ed in presenza di una concreta difficoltà a quantificarlo esattamente, possa essere risarcito anche in via equitativa [12] . Si pensi al danno non patrimoni ale in cui non vi è una perdita economica esattamente quantificabile, oppure in quelle eventualità in cui il danno economico attenga ai mancati guadagni futuri non esattamente determinabili. Ebbene in siffatte ipotesi la Cassazione ritiene quantificabili i danni derivanti dall’illegittima segnalazione in Centrale Rischi anche equitativamente. In conclusione, si rileva che la Centrale Rischi costituisce il contemperamento tra due differenti posizioni giuridiche entrambe meritevoli di tutela: da un lato l’esigenza per il sistema creditizio di avere una banca dati di segnalazioni che consenta di verificare in maniera oggettiva l’affidabilità del cliente e, per converso, la tutela del correntista /cliente a far sì che le informazioni che vengono raccolte dalla Centrale Rischi siano corrette, rispondenti alla sua reale situazione economica e contabile e, pertanto, non ingenerino danni ingiusti quali, appunto, l’impossibilità di accedere al credito o l’accesso a condizioni di maggior costo per effetto di una segnalazione erronea e, pertanto, illegittima. [1] Tribunale Roma sez. XVI, 11/01/2021. Fonte: De Jure – Redazione Giuffré 2021 [2] Per merito creditizio s’intende la capacità del soggetto che intende accedere a servizi di credito di far fronte ai propri impegni economici e le sue prospettive di solvibilità, avuto riguardo alla sua situazione economica complessiva. Tali elementi vengono valutati all’atto di concessione del credito proprio al fine di determinare innanzitutto la possibilità di accedere al credito e, in caso positivo, le condizioni economiche da applicare: un maggior merito creditizio darà accesso a condizioni economiche più favorevoli [3] Cfr art. 124 bis comma 2 Decreto legislativo del 01/09/1993 - N. 385 – TUB. [4] cfr. art. 125 Decreto legislativo del 01/09/1993 - N. 385 – TUB [5] cfr. Cassazione civile sez. I, 15/12/2020, n.28635 [6] cfr. Circolare Banca d’Italia n. 139 dell’11 febbraio 1991, pag. 43. [7] “l’accertamento di siffatto imprescindibile presupposto non può conseguire, in modo automatico, dal semplice rilievo dell'esistenza di una partita debitoria ovvero dall’accertamento di ritardi nel pagamento di un debito, ma presuppone una valutazione negativa della intera situazione patrimoniale del segnalando, apprezzabile come "deficitaria", ovvero come di "grave difficoltà economica". ABF- Arbitro Bancario Finanziario – Collegio di Palermo - Decisione N. 16876 del 01 ottobre 2020 [8] ABF- Arbitro Bancario Finanziario – Collegio di Palermo - Decisione N. 16876 del 01 ottobre 2020 [9] Cfr. Cassazione civile sez. I, 08/01/2019, n.207 [10] In caso di illecito trattamento dei dati personali per illegittima segnalazione alla Centrale dei rischi, il danno, sia patrimoniale che non patrimoniale, non può essere considerato "in re ipsa" per il fatto stesso dello svolgimento dell'attività pericolosa. Anche nel quadro di applicazione dell'art. 2050 c.c., il danno, e in particolare la "perdita", deve essere sempre allegato e provato da parte dell'interessato. Cassazione civile sez. I, 08/01/2019, n.207 [11] Corte appello Napoli sez. VII, 22/01/2021, n.225 Fonte: Redazione Giuffrè 2021 [12] Cassazione civile sez. I, 08/01/2019, n.207
Autore: Avv. Alessandra Turi 22 lug, 2021
Può accadere che a seguito dell’apertura di una successione, legittima o testamentaria, un soggetto, che chiameremo Tizio, entri in possesso di uno o più immobili. Può accadere che successivamente venga rinvenuto un nuovo testamento che prevede una distribuzione dei beni del de cuius diversa da quella inizialmente operata, oppure può succedere che si scopra l’esistenza di un altro erede, ed ancora che un chiamato all’eredità che aveva inizialmente rinunciato, revochi la propria dichiarazione e accetti l’eredità; più comunemente, possono sorgere contestazioni tra gli eredi per la divisione della massa ereditaria. Può accadere che prima che uno di questi eventi sopraggiunga e sia definito, il nostro Tizio, abbia venduto ad altri, mettiamo Caio, ad esempio un bene immobile a lui pervenuto dalla successione. In questo caso è logico domandarsi se Caio possa essere pregiudicato dalle pretese del vero erede che abbia vittoriosamente rivendicato la propria eredità e si veda riconosciuti diritti anche sul bene che Tizio abbia ormai trasferito. In effetti ci troviamo in un classico caso di acquisto a non domino, ovvero di acquisto di un bene da colui che non ne era il vero proprietario. La legge disciplina sia l’ipotesi in cui l’acquisto a non domino sia originato della nullità di un atto inter vivos, sia l’ipotesi in cui il titolo del dante causa, trovi asserita, ma non valida, origine in un fenomeno successorio mortis causa; quest’ultimo è il tema che ci accingiamo a esplorare. L’articolo 534 cod. civ. prevede che l’erede che pretenda il riconoscimento dei propri diritti successori, possa agire anche contro gli aventi causa da chi possiede a titolo di erede o senza titolo: e già questo è sufficiente a richiamare l’attenzione di chi si accinge ad acquistare un bene proveniente da una successione. Il medesimo articolo fa tuttavia salvi i diritti acquistati per effetto di convenzione a titolo oneroso con l’erede apparente, dai terzi i quali provino di avere contratto in buona fede. Con i riferimento all’acquisto di beni immobili per far salvo l’acquisto del terzo è anche necessario che l’acquisto a titolo di erede e l’acquisto dall’erede apparente siano stati trascritti anteriormente alla trascrizione dell’acquisto da parte dell’erede o del legatario vero, o alla trascrizione della domanda giudiziale contro l’erede apparente. I presupposti della validità dell’acquisto del terzo sono perciò: a) l’acquisto a titolo oneroso; b) la buona fede; c) il corretto adempimento delle trascrizioni. Importante osservare che la buona fede non si intende presunta; il terzo avente causa a titolo oneroso dall'erede apparente ha, piuttosto, l'onere di provare la sua buona fede, consistente nella dimostrazione dell'idoneità del comportamento dell'alienante ad ingenerare la ragionevole convinzione di trattare con il vero erede, nonché dell'esistenza di circostanze indicative dell'ignoranza incolpevole di esso circa la realtà della situazione ereditaria al momento dell'acquisto (Tribunale di Bari Sez. I, 3/10/2006 n. 2479). Chiarisce bene il punto la sentenza della Cassazione civile sez. II, 04/02/2010, n.2653 dove si legge che “A norma dell'art. 534 c.c., la buona fede del soggetto che acquista dall'erede apparente non è presunta, ma deve essere provata attraverso atti o fatti certi che rivelino positivamente la buona fede e non siano compatibili con un intento di mala fede. Non adempie pertanto al suo onere probatorio la parte che si limiti a dimostrare l'insufficienza degli elementi per ritenere la mala fede, in quanto tale insufficienza no n può essere convertita in una prova di buona fede assolutamente coerente”. In giurisprudenza è perciò fermo il principio che il terzo acquirente deve fornire prova positiva della propria buona fede, e dell’impossibilità, nemmeno adottando la dovuta diligenza, di rilevare indizi del difetto del titolo del venditore (in questo senso anche Corte appello Firenze sez. I, 16/02/2017, (ud. 13/12/2016, dep. 16/02/2017), n.367 “L'espresso richiamo nel contratto di compravendita intercorso tra l'appellante e i sigg.ri F.L. e S.S. della dichiarazione di successione evidenzia la mancanza di ordinaria diligenza da parte dell'acquirente che l'accettazione da parte di R. si riferiva all'intero compendio ereditario del defunto padre. Dunque la M. con ordinaria diligenza avrebbe dovuto escludere il diritto della F.L. a revocare la rinuncia all'eredità ( art. 525 c.c. ) e quindi e ad alienare la nuda proprietà al nipote che poi l'ha trasferita alla M.. Non avendolo fatto è incorsa in negligenza colpevole con conseguente esclusione dell'applicabilità in suo favore dell' art. 534 c.c. (omissis...) comma”) Non ha invece rilevanza la buona o mala fede dell’erede. L’altro elemento essenziale per assicurare la validità dell’atto di trasferimento dei beni immobili è il corretto adempimento delle trascrizioni: supponendo che la compravendita immobiliare che avviene per atto notarile sia sempre immediatamente trascritta, è necessario accertarsi soprattutto della avvenuta trascrizione del titolo del venditore (es. dell’accettazione dell’eredità); altrimenti “La vendita di bene ereditario da parte dell'erede apparente, ai sensi degli art. 534, comma 3, e 2652, n. 7, c.c., ove manchi l'anteriore trascrizione della sua accettazione ereditaria (pur se accettazione tacita, trascrivibile ex art. 2648, comma 3, c.c.), non è opponibile all'erede vero che abbia trascritto l'accettazione posteriormente alla vendita stessa, né la mera trascrizione dell'atto traslativo del bene ereditario comprova, di pe r sé, un'accettazione ereditaria opponibile ai terzi o all'erede vero, potendo il bene essere pervenuto all'alienante in virtù di un titolo diverso” Cassazione civile sez. II - 05/07/2012, n. 11305. La disciplina relativa all’efficacia dell’acquisto di beni provenienti da una successione mortis causa è completata dal disposto dell’articolo 2652 cod. civ. n. 7, il quale stabilisce che non ha effetto nei confronti dei terzi di buona fede, che hanno a qualunque titolo acquistato diritti da chi appare erede o legatario, la sentenza che accoglie la domanda con la quale si contesta il fondamento dell’acquisto a causa di morte dell’erede o legatario apparente, purché l’acquisto risulti da un atto trascritto o iscritto almeno cinque anni prima della trascrizione della domanda giudiziale. Il legislatore ha inteso in questo modo valorizzare il trascorrere del tempo nell’inerzia del vero erede: è tutelato così il terzo acquirente che abbia trascritto il proprio titolo almeno 5 anni prima la trascrizione della domanda di rivendica del vero erede. L’articolo 2652 n. 7 amplia la tutela del terzo acquirente rispetto a quanto prevede l’articolo 534 cod. civ., facendo salvo sia l’acquisto a titolo oneroso sia quella a titolo gratuito e l’acquisto non solo dall’erede apparente, ma anche dal legatario apparente. Inoltre l’articolo 2652 n. 7 cod. civ. non richiede la prova della buona fede che si intende invece presunta. L’articolo 2652 n. 7 cod. civ. fa inoltre salva l’applicazione dell’articolo 534 3° comma cod. civ. perciò è sempre necessario garantire la corretta trascrizione dell’iscrizione del titolo del venditore, perché sia salvaguardato l’acquisto del terzo. Torniamo ora ai nostri Tizio e Caio. Caio venendo ad acquistare da Tizio un bene immobile proveniente dalla successione ereditaria, dovrà verificare in primis la corretta trascrizione a favore di Caio dell’acquisto mortis causa (necessario ai sensi dell’articolo 534 cod. civ. e richiamato anche dall’articolo 2652 n. 7 cod. civ). Caio dovrà poi assicurarsi, nei limiti del possibile, che vi siano tutti gli elementi per considerare valido il titolo di acquisto di Tizio: ad esempio che altri eredi, non possano pretendere di rivedere la spartizione dei beni del de cuius e per questo accampare pretese anche sul bene che Tizio si appresta a vendere a Caio. È chiaro che rientreranno in ipotesi di ignoranza incolpevole i casi di scoperta di un testamento, o di un erede sconosciuto, mentre non aver valutato adeguatamente le conseguenze della assenza di una accettazione espressa da parte di altri eredi, potrebbe escludere il riconoscimento della buona fede in capo a Caio. Nei casi in cui permanga un’alea sulle vicende successorie, il Notaio rogante spesso suggerisce almeno che tutti gli eredi, anche coloro che non siano parte venditrice, partecipino all’atto, formulando espressa rinuncia ad ogni rivendicazione sul bene oggetto di trasferimento. In alternativa a tutela del terzo acquirente vi è l’uso di avvalersi di prodotti assicurativi che garantiscono l’acquirente da eventuali azioni restitutorie di terzi e che operano più o meno come le più comuni polizze che assicurano i beni provenienti da donazioni.
Autore: Avv. Paola Perin 22 lug, 2021
Nel 2015 ebbero molta eco, e ancora in parte continuano ad averne, le novità introdotte dal cosiddetto pacchetto Job Act, o meglio la legge che delegava il governo ad introdurre una sostanziale riforma di alcuni aspetti della vita dei lavoratori, attraverso dei decreti attuativi. Tra le modifiche più rilevanti contenute nei decreti attuativi, troviamo quella all’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori (L. 20 maggio 1970, n. 3001 Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), riformato dal d. lgs. 151/2015. L’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori prima della riforma, sanciva al primo comma il divieto assoluto dei controlli intenzionali sulla attività del lavoratore e proseguiva con un secondo comma dove, in via di eccezione, stabiliva che gli impianti di sorveglianza potevano essere installati soltanto per esigenze organizzative, produttive o di sicurezza sul lavoro. Ma dal 1970 al 2015 molto è cambiato: le modalità di svolgimento delle attività lavorative, negli anni, sono sempre più caratterizzate da processi automatizzati, l’uso di tecnologie anche sofisticate e spesso interconnesse tra loro per effettuare le proprie mansioni, hanno portato il legislatore a trovare un compromesso che permettesse, da un lato di prendere atto della mutata realtà lavorativa e non solo, dall’altro di perseguire gli obiettivi di tutela della dignità e della libertà del lavoratore costituzionalmente garantiti. Il nuovo testo dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori stabilisce i presupposti sottoelencati, declinati in 3 commi, per l’utilizzo legittimo di strumenti tecnologici atti a raccogliere dati personali: 1) gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali oppure previa autorizzazione delle sede territoriale dell'Ispettorato nazionale del lavoro; 2) non è necessario alcun previo accordo con le rappresentanze sindacali o autorizzazione per gli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze; 3) le informazioni riguardanti il lavoratore sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d'uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196. L’articolo così riformulato, se da un lato ha sdoganato l’utilizzo da parte del datore di lavoro di sistemi e di tecnologie che sicuramente o potenzialmente possono raccogliere informazioni personali (contr ollo preterintenzionale) riguardanti i lavoratori, purché gli stessi siano impiegati per finalità strettamente connesse all’esercizio del rapporto di lavoro e dell’azienda, alla tutela del suo patrimonio ovvero siano necessari per lo svolgimento delle prestazioni lavorative, dall’altro ne ha espressamente subordinato l’utilizzabilità da parte del datore di lavoro al rispetto della disciplina in materia di trattamento di dati personali, oggi contenuta nel Regolamento Europeo 2016/679, il cosiddetto GDPR e in parte ancora nel d.lgs. 2003/196 novellato dal d.lgs. 101/2018. Quali sono quindi i presupposti giuridici per utilizzare i dati personali del lavoratore nel rispetto della normativa privacy vigente, ad esempio per difendersi in giudizio, oppure per comminare una sanzione disciplinare, ma anche per valutare il rendimento del lavoro e quando invece il lavoratore può validamente eccepire un trattamento illecito dei dati innanzi all’Autorità Garante Privacy? Innanzitutto, se l’utilizzabilità dei dati dipende dall’osservanza della disciplina privacy interamente richiamata dall’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, il datore di lavoro dovrà trattare i dati del personale secondo principi specifici, volti a tutelare proprio la dignità e la libertà delle persone, ovverosia il principio di necessità e minimizzazione (art. 3, GDPR): i dati personali vanno trattati solo quando e per quanto necessario alle finalità perseguite. Il principio di correttezza (art. 11, comma 1, lett. a) GDPR), secondo cui le caratteristiche essenziali dei trattamenti svolti mediante monitoraggio degli strumenti in dotazione per la prestazione lavorativa devono essere rese note ai lavoratori; i principi di determinatezza (art. 11, comma 1, lett. b) GDPR), legittimità ed esplicitazione del fine perseguito dal trattamento; i principi di pertinenza e non eccedenza dei dati trattati (art. 11, comma 1, lett. d) GDPR), che riguardano la proporzionalità dei dati trattati rispetto alle finalità dichiarate e alle reali esigenze dell’organizzazione; infine, il principio della conservazione dei dati per il tempo necessario a realizzare gli scopi del trattamento (art. 11, comma 1, lett. e) GDPR). Il datore di lavoro dovrà quindi informare dettagliatamente il lavoratore in merito alle finalità e modalità di trattamento dei suoi dati personali all’atto dell’assunzione. Il GDPR, all’articolo 13, stabilisce i contenuti che l’informativa sul trattamento dei dati personali deve avere. Tra gli altri, nell’informativa si farà riferimento anche ai diritti che il lavoratore/interessato potrà esercitare a sua tutela. La base giuridica di legittimità del trattamento risiede nel rapporto contrattuale tra le parti. Dopodiché, seguendo l’ordine di cui ai commi 1) e 2) dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori sopra ripresi in sintesi, laddove – 1) ‑ il datore di lavoro volesse installare degli impianti audiovisivi o altri strumenti che permettano il controllo a distanza del lavoratore (es. sistemi di geolocalizzazione, con qualsiasi strumento o dispositivo), lo stesso, oltre a dover ottenere un previo accordo con i sindacati ovvero essere autorizzato dall’ispettorato del lavoro, dovrà obbligatoriamente, ai sensi dell’art. 35 del GDPR, svolgere preliminarmente una valutazione di impatto protezione dati comprendente una valutazione del rischio (risk assessment) di violazione del trattamento dei dati e le misure adottate per mitigarlo. Il documento consta di un testo analitico operativo, che contiene anche il dettaglio delle specifiche dei sistemi utilizzati e gli stessi devono essere installati ed utilizzati di modo da garantire che il trattamento avvenga secondo i principi sopra elencati. Il datore di lavoro è responsabile dei contenuti del documento di valutazione ed eventuali discrasie operative, oltre ad essere passibili di sanzioni, potrebbero rendere il trattamento dei dati illecito e quindi senza possibilità di utilizzo degli stessi. Inoltre, il datore di lavoro dovrà fornire al personale un’informativa specifica relativa al trattamento dei dati per mezzo del sistema di videosorveglianza o di geolocalizzazione. L’informativa seguirà i contenuti di cui all’art. 13 e seguenti del GDPR. Quando invece il ‑ 2) ‑ il datore di lavoro intende mettere a disposizione, come oramai accade per moltissime prestazioni lavorative, un computer (fisso e/o portatile) ovvero uno smartphone o analoghi strumenti informatici ai lavoratori, la condizione, di cui al comma 3) dello Statuto dei Lavoratori, ossia che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d'uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli, unitamente all’obbligo di rispettare i principi sanciti dal GDPR a tutela della dignità e della libertà delle persone impongono allo stesso – di dotarsi di una regolamentazione interna (cd. policy aziendale) disciplinante l’uso degli strumenti informatici e, se adottati presso la realtà aziendale considerata, l’uso dei badge per l’accesso e l’uscita in azienda. Le policy sull’uso degli strumenti informatici disporranno anche in merito all’uso di internet ed eventuali restrizioni rispetto i social network o installazione di app e software, nonché riguardo l’uso di chiavi d’accesso a banche dati specifiche. Allo stesso modo si regolamenterà, se del caso, l’uso dello smartphone. Il datore di lavoro che non indicasse chiaramente che gli strumenti informatici sono uno strumento di lavoro e i relativi limiti e condizioni di utilizzo, potrebbe vedere fortemente limitata, se non del tutto impedita, in mancanza di qualsiasi indicazione a riguardo verso i dipendenti, la facoltà di utilizzare validamente in una controversia le informazioni eventualmente estrapolate dall’account di posta elettronica del lavoratore o per comminare una sanzione disciplinare.
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Il tema che si vuole affrontare è tanto di comune esperienza quanto singolarmente trascurato dagli interpreti e dalla giurisprudenza ed è istituto che risente ancora di significative incertezze nella sua disciplina e regolamentazione. Il preavviso nel recesso dei contratti di lavoro, come noto, trova la sua primaria fonte di disciplina ancora e solo nel codice civile e, segnatamente, nell’art. 2118 che prevede come “ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, dando il preavviso” ed ancora “in mancanza di preavviso, il recedente è tenuto verso l’altra parte a un’indennità equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso”. Quest’istituto assume quindi la principale funzione di tutelare – in maniera non dissimile da qualsiasi contratto di durata - la parte che subisce un (valido) recesso ma può svolgere anche altre funzioni come, ad esempio, nel suo prolungamento dal lato del dipendente, quella di garantire, pattiziamente, una “stabilità” del rapporto (c.d. “patto di stabilità”). La sua funzione “istituzionale” è quindi quella di prevedere uno spazio temporale per attenuare gli effetti del (seppur legittimo) recesso e, quindi, consentire, alternativamente, al datore di lavoro di organizzare il passaggio di consegne, riorganizzare l’attività, etc., al lavoratore di reperire nuova occupazione. Spazio temporale la cui durata è rimessa alla contrattazione collettiva - vera e propria fonte integrativa della scarna disciplina legale – e che, a seconda dei settori merceologici della qualifica ed anzianità di servizio del lavoratore, viene individuato in maniera molto differenziata. Sulla base di queste premesse si dovrebbe agevolmente concludere che, trattandosi di diritto potestativo conferito al soggetto che subisce il recesso, questo ben può rinunciarvi senza alcuna conseguenza. Così in effetti non è. Ed infatti, tradizionalmente, la giurisprudenza di merito, con il probabile intento di salvaguardare il prestatore dimissionario che aveva fatto affidamento sulla continuazione dell’attività lavorativa e, pertanto, sulla percezione della retribuzione durante il periodo di preavviso, si era espressa in modo difforme ritenendo che le “aspettative e i diritti facenti capo al lavoratore dimissionario diligente nel periodo di preavviso non possono dunque essere frustrate dall’interesse e volontà datoriale a non utilizzare le prestazioni lavorative offerte, onde l’esonero del dipendente dall’effettuazione del preavviso pone il datore stesso in condizione di mora senza liberazione dalle obbligazioni per legge incombentigli” e dunque il datore di lavoro che intende, in ipotesi di dimissioni del suo dipendente, rinunciare al preavviso dovrà comunque corrispondere al lavoratore l’equivalente monetario. Di tale impostazione vi è spesso significativa eco anche nei verbali conciliativi di risoluzione che prevedono, di regola, “l’esonero reciproco al periodo di preavviso (per il lavoratore) ed al pagamento della relativa indennità (per il datore di lavoro)”. Ed ancora nella contrattazione collettiva: così, ad esempio, l’art. 254 CCNL Terziario stabilisce che “(…) Ove invece il datore di lavoro intenda di sua iniziativa far cessare il rapporto prima della scadenza del preavviso, ne avrà facoltà, ma dovrà corrispondere al lavoratore l’indennità sostitutiva nelle misure di cui al comma precedente per il periodo di anticipata risoluzione del rapporto di lavoro”. In tale contesto riveste dunque particolare interesse una recente sentenza del Tribunale di Padova (7 marzo 2019, n.181) che rovescia, sembrerebbe per la prima volta, tale impostazione riportando la questione alle categorie civilistiche e statuendo che la rinunzia al periodo di preavviso da parte del datore di lavoro non obbliga alla corresponsione dell’indennità sostitutiva, in assenza di una specifica clausola contenuta nel contratto individuale di lavoro o contratto collettivo. Impostazione, quest’ultima, già consolidatasi in materia di agenzia (l’art. 1750 c.c. non fa riferimento all’indennità sostitutiva ma vincola solo al preavviso la parte recedente) laddove secondo la migliore dottrina ma anche secondo i principali Accordi Economici Collettivi (AEC Industria ed AEC Terziario), la parte che subisce il recesso si trova nella posizione di poter scegliere se liberare il recedente dalle obbligazioni derivanti dal rapporto, oppure chiedere l’esecuzione del preavviso: (anche) il preponente è dunque legittimato a non pagare l’indennità sostitutiva, a fronte del recesso esercitato dall’agente, comunicando la semplice volontà di porre fine al rapporto (entro termini stabiliti dai suddetti AEC).  In conclusione, la questione dovrebbe indurre a porre maggiore attenzione da parte dei contraenti, in caso di assenza regolamentativa di fonte collettiva, (anche) in fase di stipulazione dei contratti individuali di lavoro.
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La grave crisi economica che caratterizza l’attuale periodo storico ha reso ancor più rilevante la problematica dell’accesso al credito. Crisi di liquidità e ridotta capacità di fornire garanzie rendono più difficoltoso per molte fasce della popolazione, ma in special modo per le piccole e medie imprese, accedere a forme di prestito o finanziamento. La centralità dell’accesso al credito, in molti casi vitale per la sopravvivenza dell’impresa, è stata rimarcata dal Tribunale di Roma con una recentissima sentenza nella quale la revoca dell'affidamento bancario, conseguente alla segnalazione di un imprenditore presso la Centrale Rischi della Banca d 'Italia, è stata ritenuta idonea ad arrecare un pregiudizio grave ed irreparabile all'attività della persona segnalata, privata della possibilità di reperire la liquidità necessaria per la continuazione dell’attività d’impresa, soprattutto in questo momento particolare di notoria crisi generale del mercato [1] . Come noto l’accesso al credito viene concesso a fronte della positiva rilevazione, da parte dell’intermediario finanziario, del cosiddetto merito creditizio [2] , determinato da una serie di elementi relativi all’attività d’impresa o alla situazione economica e patrimoniale della persona fisica quali: il volume d’affari, l’esposizione debitoria, la preesistenza di precedenti prestiti o di altre forme di finanziamento in essere e il positivo adempimento degli stessi. Tali elementi consentono all’intermediario finanziario, in sede di sottoscrizione del contratto di finanziamento o nel corso della pendenza dello stesso, di valutare discrezionalmente il grado di affidabilità del cliente e i margini di accessibilità al credito, nonché di determinarne le condizioni di accesso. Pertanto è fondamentale che il merito creditizio sia valutato in maniera corretta al fine di non veder pregiudicato ingiustamente l’accesso al credito del cliente o imporre a quest’ultimo un costo del credito non rapportato alle sue reali condizioni economiche. A tal fine il legislatore, con l’emanazione degli artt. 124-bis e 125 del Decreto legislativo del 01/09/1993 n. 385 – Testo Unico Bancario, ha stabilito che siano individuati i parametri di riferimento che consentano una valutazione il più possibile certa ed oggettiva del merito creditizio, ancorando tale valutazione sulla base di informazioni adeguate, se del caso fornite dal consumatore stesso e, ove necessario, ottenute consultando una banca dati pertinente [3] . La Centrale Rischi assolve proprio a tale funzione: raccogliere dati di coloro che accedono all’attività creditizia sulla base di segnalazioni da parte degli intermediari finanziari che trattano i dati dei rispettivi clienti, memorizzare le criticità segnalate rispetto ai margini di affidabilità e solvibilità, restituendo ai medesimi intermediari finanziari il complesso delle informazioni raccolte sul singolo nominativo. Allo stesso modo , l’art. 125 del TUB pone in capo all’intermediario uno stringente obbligo d’informativa al Cliente che deve essere tempestivamente reso edotto della propria “ reputazione creditizia ” [4] . Nel valutare il merito creditizio del singolo cliente l’intermediario finanziario, pertanto, si atterrà alle informazioni registrate dalla Centrale Rischi. Tale attività valutativa è stata oggetto di una regolamentazione stringente da parte della Banca d’Italia che, con la Circolare n. 139 dell’11 febbraio 1991, ha individuato una nozione d’insolvenza ai fini dell’iscrizione in Centrale Rischi non del tutto coincidente con l’insolvenza fallimentare. Tanto che la Corte di Cassazione è giunta ad affermare che si possa individuare una nozione levior d’insolvenza ai fini dell’appostazione a sofferenza (e della conseguente segnalazione in C.R.) rispetto all’insolvenza fallimentare [5] . In particolare la Banca d’Italia ha precisato che: “L'appostazione a sofferenza implica una valutazione da parte dell'intermediario della complessiva situazione finanziaria del cliente e non può originare automaticamente al verificarsi di singoli specifici eventi quali, ad esempio, uno o più ritardi nel pagamento del debito o la contestazione del credito da parte del debitore” [6] . L’importanza delle linee guida fornite dalla Banca d’Italia è stata recentemente ribadita in un interessante decisione emessa dal Collegio di Palermo dell’Arbitro Bancario Finanziario . Con la decisione del 01 ottobre 2020 n. 16876 [7] l’.A.B.F. ha affermato che l’intermediario finanziario, nel valutare il merito creditizio del singolo cliente, debba attenersi alle istruzioni fornite dalla Banca d’Italia qualificando tali istruzioni alla stregua di “parametri di condotta destinati ad assumere un importante rilievo, pure nello spettro di una valutazione che sia volta ad individuare profili di responsabilità dell'istituto di credito nei confronti del proprio cliente e che muova i suoi passi sotto l'egida, oltre che dei canoni generali di correttezza e di buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., anche del canone della diligenza professionale di cui all'art. 1176, comma 2, cod. civ.” [8] . In tal modo l’A.B.F. ha ricondotto la condotta lesiva dell’intermediario finanziario entro lo schema della responsabilità contrattuale quale violazione dei principi di buona fede e diligenza nello svolgimento dell’attività professionale, secondo un’interpretazione costantemente condivisa da larga parte della giurisprudenza ordinaria e di legittimità. La qualificazione dell’illegittima segnalazione in Centrale Rischi entro lo schema della responsabilità contrattuale ha rilevanti risvolti positivi in sede giurisdizionale per il cliente illegittimamente segnalato, in quanto l’onere probatorio in capo a quest’ultimo sarà molto meno gravoso dovendo egli limitarsi ad allegare l’esistenza di un titolo su cui si fonda il rapporto (il contratto di concessione del credito), l’inadempimento dell’ente concessore del credito il quale avrà trattato illecitamente i dati del proprio cliente segnalandolo ingiustamente presso la Centrale Rischi della Banca d’Italia e il danno patito in conseguenza della segnalazione illegittima. Sarà onere dell’intermediario finanziario dimostrare che non vi è stato inadempimento, avendo questo ultimo correttamente valutato la situazione economica generale del cliente o che tale inadempimento non sia imputabile al medesimo ente concessore del credito. L’illegittima iscrizione in C.R. costituisce, pertanto, un’ipotesi di responsabilità contrattuale dell’intermediario finanziario quale illegittima utilizzazione dei dati personali del cliente. Tanto che la giurisprudenza di legittimità tradizionalmente l’ha qualificata come violazione del disposto di cui all’art. 15 del D.L.gs 196/2003 Codice Privacy [9] (oggi abrogato dal D.L. 101/2018 di recepimento del regolamento UE 2016/679 GDPR e sostituito dall’art. 82 di tale normativa comunitaria con una disciplina sostanzialmente analoga). Parimenti la giurisprudenza di legittimità costantemente ha riconosciuto che tale illecita utilizzazione dei dati personali sia idonea a cagionare una responsabilità di tipo extra-contrattuale da attività pericolose ex art. 2050 c.c. La qualificazione della condotta dell’intermediario finanziario entro lo schema di cui all’art. 2050 c.c. aggrava l’onere probatorio in capo a quest’ultimo in sede processuale, potendo l’intermediario esimersi da ogni responsabilità solo con la prova del caso fortuito, dimostrando di aver adottato ogni cautela e di essersi avvalso delle migliori tecniche di prevenzione del danno. Nel caso di specie, fornendo la prova di aver valutato in maniera corretta la complessiva situazione patrimoniale del Cliente ed evidenziandone i presupposti per poter ritenere quest’ultimo in stato d’insolvenza. Per converso, il Cliente illegittimamente segnalato che intenda vedersi riconosciuto in giudizio il risarcimento per i danni subiti avrà un onere di allegazione meno gravoso rispetto ad una normale ipotesi di responsabilità aquiliana ma, tuttavia, non insussistente, potendo altresì dimostrare il danno anche solo tramite presunzioni semplici. Al riguardo, la Corte di Cassazione ha più volte affermato che il danno patito dal cliente per effetto dell’illegittima iscrizione nella Centrale Rischi vada compiutamente provato ed allegato, sia che lo si intenda qualificare come responsabilità contrattuale, sia che lo si qualifichi come responsabilità extra-contrattuale ex art. 2050 c.c., non potendo qualificarsi un danno risarcibile per illecita segnalazione “in re ipsa” [10] . Venendo più compiutamente ad analizzare i pregiudizi che il cliente potrà lamentare in giudizio, quest’ultimo certamente potrà vedersi riconosciuto il danno patrimoniale costituito dal mancato incremento patrimoniale derivante dal diniego di accesso al credito fondato proprio sulla sussistenza di un’illegittima iscrizione in Centrale Rischi a suo carico. Analogamente potrà essere risarcito il lucro cessante costituito dai mancati ulteriori guadagni che, mediante l’impiego delle somme richieste a credito, il cliente avrebbe potuto realizzare. A tal fine, tuttavia, il cliente illegittimamente segnalato dovrà dimostrare il nesso di causalità tra l’illegittima segnalazione e il danno patito, dimostrando di non aver potuto accedere al credito proprio in ragione dell’illegittima segnalazione nonché di non aver potuto realizzare, in conseguenza della stessa, gli ulteriori maggiori incrementi patrimoniali. Allo stesso modo, andrà compiutamente provato il danno non patrimoniale in capo al correntista/cliente illegittimamente segnalato in termini di danno all’immagine (professionale per l’imprenditore e personale per le persone fisiche), sempre che, al fine di poter essere risarcito, superi una soglia minima di tollerabilità. Il giudice dovrà, pertanto, accertare l'esistenza del danno in questione, verificando se e in quale misura l'illegittima segnalazione presso la Centrale dei Rischi abbia arrecato pregiudizio all'immagine pubblica della persona giuridica, con conseguente necessità di un'indagine sulla diffusione della notizia diffamatoria, sulla sua percepibilità da parte della collettività, sulla possibilità per fornitori e clienti di riconnettere il declino societario a quella notizia, nonché sull'eccedenza del danno rispetto alla soglia della normale tollerabilità [11] . Diversamente, la Corte di Cassazione ha riconosciuto che per quanto concerne la liquidazione del danno, ove compiutamente provato ed allegato ed in presenza di una concreta difficoltà a quantificarlo esattamente, possa essere risarcito anche in via equitativa [12] . Si pensi al danno non patrimoni ale in cui non vi è una perdita economica esattamente quantificabile, oppure in quelle eventualità in cui il danno economico attenga ai mancati guadagni futuri non esattamente determinabili. Ebbene in siffatte ipotesi la Cassazione ritiene quantificabili i danni derivanti dall’illegittima segnalazione in Centrale Rischi anche equitativamente. In conclusione, si rileva che la Centrale Rischi costituisce il contemperamento tra due differenti posizioni giuridiche entrambe meritevoli di tutela: da un lato l’esigenza per il sistema creditizio di avere una banca dati di segnalazioni che consenta di verificare in maniera oggettiva l’affidabilità del cliente e, per converso, la tutela del correntista /cliente a far sì che le informazioni che vengono raccolte dalla Centrale Rischi siano corrette, rispondenti alla sua reale situazione economica e contabile e, pertanto, non ingenerino danni ingiusti quali, appunto, l’impossibilità di accedere al credito o l’accesso a condizioni di maggior costo per effetto di una segnalazione erronea e, pertanto, illegittima. [1] Tribunale Roma sez. XVI, 11/01/2021. Fonte: De Jure – Redazione Giuffré 2021 [2] Per merito creditizio s’intende la capacità del soggetto che intende accedere a servizi di credito di far fronte ai propri impegni economici e le sue prospettive di solvibilità, avuto riguardo alla sua situazione economica complessiva. Tali elementi vengono valutati all’atto di concessione del credito proprio al fine di determinare innanzitutto la possibilità di accedere al credito e, in caso positivo, le condizioni economiche da applicare: un maggior merito creditizio darà accesso a condizioni economiche più favorevoli [3] Cfr art. 124 bis comma 2 Decreto legislativo del 01/09/1993 - N. 385 – TUB. [4] cfr. art. 125 Decreto legislativo del 01/09/1993 - N. 385 – TUB [5] cfr. Cassazione civile sez. I, 15/12/2020, n.28635 [6] cfr. Circolare Banca d’Italia n. 139 dell’11 febbraio 1991, pag. 43. [7] “l’accertamento di siffatto imprescindibile presupposto non può conseguire, in modo automatico, dal semplice rilievo dell'esistenza di una partita debitoria ovvero dall’accertamento di ritardi nel pagamento di un debito, ma presuppone una valutazione negativa della intera situazione patrimoniale del segnalando, apprezzabile come "deficitaria", ovvero come di "grave difficoltà economica". ABF- Arbitro Bancario Finanziario – Collegio di Palermo - Decisione N. 16876 del 01 ottobre 2020 [8] ABF- Arbitro Bancario Finanziario – Collegio di Palermo - Decisione N. 16876 del 01 ottobre 2020 [9] Cfr. Cassazione civile sez. I, 08/01/2019, n.207 [10] In caso di illecito trattamento dei dati personali per illegittima segnalazione alla Centrale dei rischi, il danno, sia patrimoniale che non patrimoniale, non può essere considerato "in re ipsa" per il fatto stesso dello svolgimento dell'attività pericolosa. Anche nel quadro di applicazione dell'art. 2050 c.c., il danno, e in particolare la "perdita", deve essere sempre allegato e provato da parte dell'interessato. Cassazione civile sez. I, 08/01/2019, n.207 [11] Corte appello Napoli sez. VII, 22/01/2021, n.225 Fonte: Redazione Giuffrè 2021 [12] Cassazione civile sez. I, 08/01/2019, n.207
Autore: Avv. Alessandra Turi 22 lug, 2021
Può accadere che a seguito dell’apertura di una successione, legittima o testamentaria, un soggetto, che chiameremo Tizio, entri in possesso di uno o più immobili. Può accadere che successivamente venga rinvenuto un nuovo testamento che prevede una distribuzione dei beni del de cuius diversa da quella inizialmente operata, oppure può succedere che si scopra l’esistenza di un altro erede, ed ancora che un chiamato all’eredità che aveva inizialmente rinunciato, revochi la propria dichiarazione e accetti l’eredità; più comunemente, possono sorgere contestazioni tra gli eredi per la divisione della massa ereditaria. Può accadere che prima che uno di questi eventi sopraggiunga e sia definito, il nostro Tizio, abbia venduto ad altri, mettiamo Caio, ad esempio un bene immobile a lui pervenuto dalla successione. In questo caso è logico domandarsi se Caio possa essere pregiudicato dalle pretese del vero erede che abbia vittoriosamente rivendicato la propria eredità e si veda riconosciuti diritti anche sul bene che Tizio abbia ormai trasferito. In effetti ci troviamo in un classico caso di acquisto a non domino, ovvero di acquisto di un bene da colui che non ne era il vero proprietario. La legge disciplina sia l’ipotesi in cui l’acquisto a non domino sia originato della nullità di un atto inter vivos, sia l’ipotesi in cui il titolo del dante causa, trovi asserita, ma non valida, origine in un fenomeno successorio mortis causa; quest’ultimo è il tema che ci accingiamo a esplorare. L’articolo 534 cod. civ. prevede che l’erede che pretenda il riconoscimento dei propri diritti successori, possa agire anche contro gli aventi causa da chi possiede a titolo di erede o senza titolo: e già questo è sufficiente a richiamare l’attenzione di chi si accinge ad acquistare un bene proveniente da una successione. Il medesimo articolo fa tuttavia salvi i diritti acquistati per effetto di convenzione a titolo oneroso con l’erede apparente, dai terzi i quali provino di avere contratto in buona fede. Con i riferimento all’acquisto di beni immobili per far salvo l’acquisto del terzo è anche necessario che l’acquisto a titolo di erede e l’acquisto dall’erede apparente siano stati trascritti anteriormente alla trascrizione dell’acquisto da parte dell’erede o del legatario vero, o alla trascrizione della domanda giudiziale contro l’erede apparente. I presupposti della validità dell’acquisto del terzo sono perciò: a) l’acquisto a titolo oneroso; b) la buona fede; c) il corretto adempimento delle trascrizioni. Importante osservare che la buona fede non si intende presunta; il terzo avente causa a titolo oneroso dall'erede apparente ha, piuttosto, l'onere di provare la sua buona fede, consistente nella dimostrazione dell'idoneità del comportamento dell'alienante ad ingenerare la ragionevole convinzione di trattare con il vero erede, nonché dell'esistenza di circostanze indicative dell'ignoranza incolpevole di esso circa la realtà della situazione ereditaria al momento dell'acquisto (Tribunale di Bari Sez. I, 3/10/2006 n. 2479). Chiarisce bene il punto la sentenza della Cassazione civile sez. II, 04/02/2010, n.2653 dove si legge che “A norma dell'art. 534 c.c., la buona fede del soggetto che acquista dall'erede apparente non è presunta, ma deve essere provata attraverso atti o fatti certi che rivelino positivamente la buona fede e non siano compatibili con un intento di mala fede. Non adempie pertanto al suo onere probatorio la parte che si limiti a dimostrare l'insufficienza degli elementi per ritenere la mala fede, in quanto tale insufficienza no n può essere convertita in una prova di buona fede assolutamente coerente”. In giurisprudenza è perciò fermo il principio che il terzo acquirente deve fornire prova positiva della propria buona fede, e dell’impossibilità, nemmeno adottando la dovuta diligenza, di rilevare indizi del difetto del titolo del venditore (in questo senso anche Corte appello Firenze sez. I, 16/02/2017, (ud. 13/12/2016, dep. 16/02/2017), n.367 “L'espresso richiamo nel contratto di compravendita intercorso tra l'appellante e i sigg.ri F.L. e S.S. della dichiarazione di successione evidenzia la mancanza di ordinaria diligenza da parte dell'acquirente che l'accettazione da parte di R. si riferiva all'intero compendio ereditario del defunto padre. Dunque la M. con ordinaria diligenza avrebbe dovuto escludere il diritto della F.L. a revocare la rinuncia all'eredità ( art. 525 c.c. ) e quindi e ad alienare la nuda proprietà al nipote che poi l'ha trasferita alla M.. Non avendolo fatto è incorsa in negligenza colpevole con conseguente esclusione dell'applicabilità in suo favore dell' art. 534 c.c. (omissis...) comma”) Non ha invece rilevanza la buona o mala fede dell’erede. L’altro elemento essenziale per assicurare la validità dell’atto di trasferimento dei beni immobili è il corretto adempimento delle trascrizioni: supponendo che la compravendita immobiliare che avviene per atto notarile sia sempre immediatamente trascritta, è necessario accertarsi soprattutto della avvenuta trascrizione del titolo del venditore (es. dell’accettazione dell’eredità); altrimenti “La vendita di bene ereditario da parte dell'erede apparente, ai sensi degli art. 534, comma 3, e 2652, n. 7, c.c., ove manchi l'anteriore trascrizione della sua accettazione ereditaria (pur se accettazione tacita, trascrivibile ex art. 2648, comma 3, c.c.), non è opponibile all'erede vero che abbia trascritto l'accettazione posteriormente alla vendita stessa, né la mera trascrizione dell'atto traslativo del bene ereditario comprova, di pe r sé, un'accettazione ereditaria opponibile ai terzi o all'erede vero, potendo il bene essere pervenuto all'alienante in virtù di un titolo diverso” Cassazione civile sez. II - 05/07/2012, n. 11305. La disciplina relativa all’efficacia dell’acquisto di beni provenienti da una successione mortis causa è completata dal disposto dell’articolo 2652 cod. civ. n. 7, il quale stabilisce che non ha effetto nei confronti dei terzi di buona fede, che hanno a qualunque titolo acquistato diritti da chi appare erede o legatario, la sentenza che accoglie la domanda con la quale si contesta il fondamento dell’acquisto a causa di morte dell’erede o legatario apparente, purché l’acquisto risulti da un atto trascritto o iscritto almeno cinque anni prima della trascrizione della domanda giudiziale. Il legislatore ha inteso in questo modo valorizzare il trascorrere del tempo nell’inerzia del vero erede: è tutelato così il terzo acquirente che abbia trascritto il proprio titolo almeno 5 anni prima la trascrizione della domanda di rivendica del vero erede. L’articolo 2652 n. 7 amplia la tutela del terzo acquirente rispetto a quanto prevede l’articolo 534 cod. civ., facendo salvo sia l’acquisto a titolo oneroso sia quella a titolo gratuito e l’acquisto non solo dall’erede apparente, ma anche dal legatario apparente. Inoltre l’articolo 2652 n. 7 cod. civ. non richiede la prova della buona fede che si intende invece presunta. L’articolo 2652 n. 7 cod. civ. fa inoltre salva l’applicazione dell’articolo 534 3° comma cod. civ. perciò è sempre necessario garantire la corretta trascrizione dell’iscrizione del titolo del venditore, perché sia salvaguardato l’acquisto del terzo. Torniamo ora ai nostri Tizio e Caio. Caio venendo ad acquistare da Tizio un bene immobile proveniente dalla successione ereditaria, dovrà verificare in primis la corretta trascrizione a favore di Caio dell’acquisto mortis causa (necessario ai sensi dell’articolo 534 cod. civ. e richiamato anche dall’articolo 2652 n. 7 cod. civ). Caio dovrà poi assicurarsi, nei limiti del possibile, che vi siano tutti gli elementi per considerare valido il titolo di acquisto di Tizio: ad esempio che altri eredi, non possano pretendere di rivedere la spartizione dei beni del de cuius e per questo accampare pretese anche sul bene che Tizio si appresta a vendere a Caio. È chiaro che rientreranno in ipotesi di ignoranza incolpevole i casi di scoperta di un testamento, o di un erede sconosciuto, mentre non aver valutato adeguatamente le conseguenze della assenza di una accettazione espressa da parte di altri eredi, potrebbe escludere il riconoscimento della buona fede in capo a Caio. Nei casi in cui permanga un’alea sulle vicende successorie, il Notaio rogante spesso suggerisce almeno che tutti gli eredi, anche coloro che non siano parte venditrice, partecipino all’atto, formulando espressa rinuncia ad ogni rivendicazione sul bene oggetto di trasferimento. In alternativa a tutela del terzo acquirente vi è l’uso di avvalersi di prodotti assicurativi che garantiscono l’acquirente da eventuali azioni restitutorie di terzi e che operano più o meno come le più comuni polizze che assicurano i beni provenienti da donazioni.
Autore: Avv. Paola Perin 22 lug, 2021
Nel 2015 ebbero molta eco, e ancora in parte continuano ad averne, le novità introdotte dal cosiddetto pacchetto Job Act, o meglio la legge che delegava il governo ad introdurre una sostanziale riforma di alcuni aspetti della vita dei lavoratori, attraverso dei decreti attuativi. Tra le modifiche più rilevanti contenute nei decreti attuativi, troviamo quella all’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori (L. 20 maggio 1970, n. 3001 Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), riformato dal d. lgs. 151/2015. L’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori prima della riforma, sanciva al primo comma il divieto assoluto dei controlli intenzionali sulla attività del lavoratore e proseguiva con un secondo comma dove, in via di eccezione, stabiliva che gli impianti di sorveglianza potevano essere installati soltanto per esigenze organizzative, produttive o di sicurezza sul lavoro. Ma dal 1970 al 2015 molto è cambiato: le modalità di svolgimento delle attività lavorative, negli anni, sono sempre più caratterizzate da processi automatizzati, l’uso di tecnologie anche sofisticate e spesso interconnesse tra loro per effettuare le proprie mansioni, hanno portato il legislatore a trovare un compromesso che permettesse, da un lato di prendere atto della mutata realtà lavorativa e non solo, dall’altro di perseguire gli obiettivi di tutela della dignità e della libertà del lavoratore costituzionalmente garantiti. Il nuovo testo dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori stabilisce i presupposti sottoelencati, declinati in 3 commi, per l’utilizzo legittimo di strumenti tecnologici atti a raccogliere dati personali: 1) gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali oppure previa autorizzazione delle sede territoriale dell'Ispettorato nazionale del lavoro; 2) non è necessario alcun previo accordo con le rappresentanze sindacali o autorizzazione per gli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze; 3) le informazioni riguardanti il lavoratore sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d'uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196. L’articolo così riformulato, se da un lato ha sdoganato l’utilizzo da parte del datore di lavoro di sistemi e di tecnologie che sicuramente o potenzialmente possono raccogliere informazioni personali (contr ollo preterintenzionale) riguardanti i lavoratori, purché gli stessi siano impiegati per finalità strettamente connesse all’esercizio del rapporto di lavoro e dell’azienda, alla tutela del suo patrimonio ovvero siano necessari per lo svolgimento delle prestazioni lavorative, dall’altro ne ha espressamente subordinato l’utilizzabilità da parte del datore di lavoro al rispetto della disciplina in materia di trattamento di dati personali, oggi contenuta nel Regolamento Europeo 2016/679, il cosiddetto GDPR e in parte ancora nel d.lgs. 2003/196 novellato dal d.lgs. 101/2018. Quali sono quindi i presupposti giuridici per utilizzare i dati personali del lavoratore nel rispetto della normativa privacy vigente, ad esempio per difendersi in giudizio, oppure per comminare una sanzione disciplinare, ma anche per valutare il rendimento del lavoro e quando invece il lavoratore può validamente eccepire un trattamento illecito dei dati innanzi all’Autorità Garante Privacy? Innanzitutto, se l’utilizzabilità dei dati dipende dall’osservanza della disciplina privacy interamente richiamata dall’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, il datore di lavoro dovrà trattare i dati del personale secondo principi specifici, volti a tutelare proprio la dignità e la libertà delle persone, ovverosia il principio di necessità e minimizzazione (art. 3, GDPR): i dati personali vanno trattati solo quando e per quanto necessario alle finalità perseguite. Il principio di correttezza (art. 11, comma 1, lett. a) GDPR), secondo cui le caratteristiche essenziali dei trattamenti svolti mediante monitoraggio degli strumenti in dotazione per la prestazione lavorativa devono essere rese note ai lavoratori; i principi di determinatezza (art. 11, comma 1, lett. b) GDPR), legittimità ed esplicitazione del fine perseguito dal trattamento; i principi di pertinenza e non eccedenza dei dati trattati (art. 11, comma 1, lett. d) GDPR), che riguardano la proporzionalità dei dati trattati rispetto alle finalità dichiarate e alle reali esigenze dell’organizzazione; infine, il principio della conservazione dei dati per il tempo necessario a realizzare gli scopi del trattamento (art. 11, comma 1, lett. e) GDPR). Il datore di lavoro dovrà quindi informare dettagliatamente il lavoratore in merito alle finalità e modalità di trattamento dei suoi dati personali all’atto dell’assunzione. Il GDPR, all’articolo 13, stabilisce i contenuti che l’informativa sul trattamento dei dati personali deve avere. Tra gli altri, nell’informativa si farà riferimento anche ai diritti che il lavoratore/interessato potrà esercitare a sua tutela. La base giuridica di legittimità del trattamento risiede nel rapporto contrattuale tra le parti. Dopodiché, seguendo l’ordine di cui ai commi 1) e 2) dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori sopra ripresi in sintesi, laddove – 1) ‑ il datore di lavoro volesse installare degli impianti audiovisivi o altri strumenti che permettano il controllo a distanza del lavoratore (es. sistemi di geolocalizzazione, con qualsiasi strumento o dispositivo), lo stesso, oltre a dover ottenere un previo accordo con i sindacati ovvero essere autorizzato dall’ispettorato del lavoro, dovrà obbligatoriamente, ai sensi dell’art. 35 del GDPR, svolgere preliminarmente una valutazione di impatto protezione dati comprendente una valutazione del rischio (risk assessment) di violazione del trattamento dei dati e le misure adottate per mitigarlo. Il documento consta di un testo analitico operativo, che contiene anche il dettaglio delle specifiche dei sistemi utilizzati e gli stessi devono essere installati ed utilizzati di modo da garantire che il trattamento avvenga secondo i principi sopra elencati. Il datore di lavoro è responsabile dei contenuti del documento di valutazione ed eventuali discrasie operative, oltre ad essere passibili di sanzioni, potrebbero rendere il trattamento dei dati illecito e quindi senza possibilità di utilizzo degli stessi. Inoltre, il datore di lavoro dovrà fornire al personale un’informativa specifica relativa al trattamento dei dati per mezzo del sistema di videosorveglianza o di geolocalizzazione. L’informativa seguirà i contenuti di cui all’art. 13 e seguenti del GDPR. Quando invece il ‑ 2) ‑ il datore di lavoro intende mettere a disposizione, come oramai accade per moltissime prestazioni lavorative, un computer (fisso e/o portatile) ovvero uno smartphone o analoghi strumenti informatici ai lavoratori, la condizione, di cui al comma 3) dello Statuto dei Lavoratori, ossia che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d'uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli, unitamente all’obbligo di rispettare i principi sanciti dal GDPR a tutela della dignità e della libertà delle persone impongono allo stesso – di dotarsi di una regolamentazione interna (cd. policy aziendale) disciplinante l’uso degli strumenti informatici e, se adottati presso la realtà aziendale considerata, l’uso dei badge per l’accesso e l’uscita in azienda. Le policy sull’uso degli strumenti informatici disporranno anche in merito all’uso di internet ed eventuali restrizioni rispetto i social network o installazione di app e software, nonché riguardo l’uso di chiavi d’accesso a banche dati specifiche. Allo stesso modo si regolamenterà, se del caso, l’uso dello smartphone. Il datore di lavoro che non indicasse chiaramente che gli strumenti informatici sono uno strumento di lavoro e i relativi limiti e condizioni di utilizzo, potrebbe vedere fortemente limitata, se non del tutto impedita, in mancanza di qualsiasi indicazione a riguardo verso i dipendenti, la facoltà di utilizzare validamente in una controversia le informazioni eventualmente estrapolate dall’account di posta elettronica del lavoratore o per comminare una sanzione disciplinare.
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